I Ricordi
Addio Brusati, un signore del cinema
Aldo Viganò - Il secolo XIX, 2 Marzo 1993
Franco Brusati era un signore all'antica italiana. Di quelli che parlano il francese come una seconda lingua madre. E amano vestire all'inglese; che anche nelle discussioni più accese non alzano mai la voce, ma hanno sempre una precisa idea da sostenere o da comunicare agli altri: forti del loro vasto retroterra culturale. Per temperamento e per vocazione artistica, Franco Brusati sia come autore teatrale, sia come sceneggiatore e regista cinematografico amava le mezze tinte, le soluzioni sottintese, i sentimenti inespressi e le metafore esistenziali.
Era affascinato da chi riesce a dar sfogo alla propria lacerante rabbia (basta vedere certi suoi personaggi cinematografici: da Il disordine a Lo zio indegno), ma personalmente preferiva andare soprattutto alla ricerca del dolore e delle frustrazioni che dietro a tale rabbia sempre si nascondono. Lo testimoniano la tenerezza e l'ironia delle sue sei commedie. Lo ribadiscono le languide sfumature di tono che caratterizzano i suoi otto lungometraggi. Lo confermano anche le due traduzioni più recenti, che hanno saputo rileggere Chi ha paura di Virginia Woolf? (portata al successo da Proclemer Ferzetti e ripresa recentemente da Malfatti Pani) in chiave di una rassegnata abitudine alla sconfitta, od offrire al Roberto Zucco di Koltès (messo in scena la scorsa stagione da Marco Sciaccalunga) i toni e i ritmi di una tragica Via Crucis. Nato a Milano il 4 agosto 1920, laureato in Scienze politiche e in Legge, Franco Brusati si trasferisce a Roma alla fine degli anni Quaranta, dopo una breve esperienza come giornalista.
Il suo incontro con il cinema avvenne tramite Castellani e Rossellini, che lo presero come aiuto non pagato, rispettivamente, in Sotto il sole di Roma e in Amore; ma fu Camerini ad avviarlo verso la sceneggiatura: attività che egli continuò ad esercitare sino alla fine degli anni Sessanta, con risultati sempre molto professionali (Anna, Ulisse, Romeo e Giulietta) e qualche discreta originalità (Domenica d'agosto, I dolci inganni, Una vita violenta). Il lavoro di sceneggiatore, però fu sempre considerato da Brusati del tutto innaturale, perché privo della soddisfazione creativa e, perciò, solo una fase di transito per imparare meglio il mestiere. Per questo, egli colse subito l'occasione di passare alla regia, offertagli nel 1956 da Rizzoli. E fu Il padrone sono me, dall'omonimo romanzo di Panzini. Un insuccesso tale da convincere Brusati, sollecitato anche da Andreina Pagnani, a darsi al teatro; dove raggiunse, invece, subito una grande notorietà, suffragata dal plauso del pubblico e amplificata dai trionfali echi della traduzione all'estero (New York, Parigi, Londra, Madrid, Stoccolma).
Dopo la prima commedia, Il benessere, che gli permise di tornare subito al cinema con Il disordine, vennero, quindi, La fastidiosa (Compagnia Ricci Magni Albertazzi) e Pietà di novembre (Compagnia Albertazzi Proclemer Tofano): oratorio sulla morte di Kennedy, raccontata dal punto di vista del suo assassino. Dalla metà degli anni Sessanta, Brusati alterna ormai stabilmente il teatro con il cinema: secondo il libero flusso, dettato solo dall'ispirazione e dalle sollecitazioni umorali. All'allegro Tenderly (1964), fecero così seguito il tragico I tulipani di Haarlem (1971), un film emblematico sull'impossibilità e sull'assurdità dell'amore assoluto, e il grottesco Pane e cioccolata (1974), che, esaltato in America e presentato a Parigi contemporaneamente alla nuova commedia, Le rose del lago, incoronò Franco Brusati come il drammaturgo regista italiano più noto alle platee internazionali.
Nel corso degli anni Ottanta, Brusati scrive ancora due commedie (La donna sul letto, Conversazione galante) e mette in scena altri tre film: il suo preferito Dimenticare Venezia, l'elegante Il buon soldato e Lo zio indegno, che contrappone in una efficace gara interpretativa Gassman e Giannini. Il successo non si ripete più nel modo clamoroso di una volta. Ma sia il regista, sia il commediografo, hanno saputo sempre rimanere fedeli allo stile rigoroso e raffinato che ben si conviene a un colto autore all'antica: assolutamente incapace di scendere a patti con il mercato e con la propria coscienza.
Ricordando Franco Brusati
Aldo Tassone pubblicazione del Festival France Cinéma 1994
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Franco Brusati non era soltanto un Autore originale, era anche un Uomo raffinato e delizioso; a France Cinéma si è fatto conoscere per la signorilità, il garbo, l'intelligenza. Uomo di grande spirito, alla Flaiano, Franco Brusati aveva spesso delle uscite épatantes, come questa sul suo ammiratissimo Luchino Certo, ci vuole del coraggio per far interpretare il protagonista di un film ferocemente antitedesco (La caduta degli dei) a un suo amante...tedesco!?.
Una volta a Firenze, durante un convegno italo-francese in cui si accusava l'insensibilità dei nostri politici nei confronti del cinema, rivolto ai colleghi francesi (Sautet, Corneau, Tavernier e altri) Brusati lanciò là questa ineffabile provocazione: Perché non chiedete al vostro ministro della cultura Jack Lang di prendere in mano le redini anche del cinema italiano? Noi vi diamo i nostri modesti talenti, le nostre abilità artigianali, e voi francesi che avete sempre avuto unalta stima dei valori culturali vi occupate di organizzare e difendere il nostro cinema!
Un uomo solo che non dimentichiamo
Giorgio Gosetti Un castello disincantato a cura di Andrea Occhipinti, Il castoro 2003
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Ideologicamente parlando, il posto di Franco Brusati è quello di un modello senza eredi, un sogno della borghesia adulta e cosciente che l'Italia ha frequentato per una breve stagione e smarrito per sempre in poco meno di un decennio.
L'utopia vera che si ricava dalle sue immagini è quella di una società in cui ciascuno ha consapevolezza del proprio ruolo e del suo posto nella Storia. Dove chi appartiene a una civiltà borghese in definitiva decadenza riesce a testimoniarne i valori, le illusioni, anche le sconfitte, ovviamente.
La sua è una società che non dimentica, che conosce il valore delle cose accumulate in secoli di esperienza, mai mitizzata e anzi pericolosamente ambigua. Non è un caso che il desiderio di normalità dell'italiano di Pane e cioccolata coincida con una società linda e minacciosa, dove è più grave fare pipì in pubblico che frodare la legge. Non cè un posto sicuro per lo scomodo protagonista del mondo in cui il regista si riflette: ovunque è fuori posto, ma ovunque ha una salda coscienza delle proprie radici che tutti sembrano avere disperso.
Se questo è vero, l'unica possibilità è restare coerenti rispetto alla propria memoria e sapere che si resta sul lato degli sconfitti, senza eccezioni.
Il modello di cittadino (e magari di italiano) che Brusati poteva avere in mente non esiste, forse non è mai esistito come categoria sociale. Avrebbe bisogno di un'etica non moralistica, di un rispetto delle regole e delle maniere che non trova riscontro, oggi ancora meno di ieri. Avrebbe voglia di normalità eccellente, ma sa che i poeti sono confinati nell'eccezionalità derisa e tollerata, chiederebbe rispetto ma sa che compromesso, bassezza e violenza sono ciò che avrà in cambio. Ci guarda con la triste consapevolezza di Mariangela Melato in Il buon soldato, con la nostalgia stanca di Nicky in Dimenticare Venezia, con il giovanile smarrimento di Pierre in I tulipani di Haarlem. E a ciascuno di loro potrebbe ripetere l'unica lezione che forse aveva appreso per sé: restare coerenti, non rinnegare le proprie origini, mostrare con il coraggio, che non è ostentazione, la propria intima diversità.
Capita talvolta che di un artista sopravviva un'immagine unica, un modo di essere che supera anche le testimonianze che ci lascia. Nel caso di Franco Brusati si potrebbe ripetere ciò che fu detto per il suo più segreto amico cinematografico, Valerio Zurlini: Aveva il senso della vita, per questo non sapeva liberarsi dalla consapevolezza della morte. Anche in lui il tratto della persona, la naturale signorilità, l'acutezza dell'osservazione e il misurato esercizio di un'ironia che avrebbe voluto sferzante e che invece ingentiliva nel gesto e nella pronuncia rotonda, sono destinate a rimanere nella memoria di chi l'ha incontrato. Ed è quindi fuori da uno specifico campo espressivo (il cinema, ma forse anche il teatro) che si deve cercare la sua più autentica memoria.
Viene voglia di pensarlo come ultima vestigia di un uomo rinascimentale che il nostro tempo ha ridotto al silenzio: un ricercatore assiduo della bellezza e della giustizia, un letterato che traduceva in immagini echi lontani del tempo da cui veniva, un tempo a cui oggi è negato il nostro squallido presente che attende ancora un'utopia capace di riscattarne l'inutile affannarsi alla rincorsa di traguardi effimeri.